Perché oggi affrontiamo il tema del cambiamento? Per due motivi sostanziali. Il primo è dato dal contesto: viviamo tempi di profonde rivoluzioni tecnologiche ed economiche[1] che imprimono nella realtà mutamenti quasi esponenziali, e comprendere i macro-temi in gioco dà quell’orientamento necessario per poterci muovere in questo contesto. Il secondo motivo è dato dalla intrinseca natura umana: sotto ogni aspetto (evoluzione, biologia, ciclo vitale, cultura, identità, idee, rappresentazioni…) parliamo di processi, e i processi si compiono nel cambiamento che è sempre difficile da gestire[2]. Il lavoro, il nostro tema, è una linea di intersezione tra questi due poli (contesto e individuo) e, come possiamo agilmente capire, delinea una sua area di appannaggio integrata alla nostra vita. Un’area che è la nostra vita[3].
Il cambiamento è sicuramente il discorso più onnicomprensivo che esista al mondo oltre che il più storicamente difficile da affrontare, semplicemente perché tutto può essere inscritto in questa categoria dinamica. Gli uomini, da una parte, hanno sempre cercato di conservare il sapere su cui le loro società si sono costituite, dall’altra hanno anche cercato di evolverlo, di svilupparlo. In questi due moti opposti e complementari, uno che trattiene e uno che sviluppa, il passo in avanti, il passaggio al nuovo è quasi sempre avvenuto per merito di pochi pionieri, con profonde lacerazioni e molto lentamente.
La chimica di Lavoisier, decapitato nella Rivoluzione Francese (1794), aveva dimostrato con il celebre «niente si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma»[4] che il processo del cambiamento è insito nelle cose. Giordano Bruno, quello del Campo de’ Fiori di Roma, era stato messo al rogo (1600) circa 200 anni prima di Lavoiser perché contrario al principio religioso e dogmatico che nulla si corrompe; egli pensava già (erano gli anni ‘80 del 1500) che gli atomi che costituiscono le cose trasmigrassero, facessero cioè «translatione da questo luogo a quell’altro»[5]. Copernico, che rivoluzionò il sistema tolemaico con la nuova teoria eliocentrica (sostenuta da poi Giordano Bruno), ebbe paura fino all’ultimo istante (morì nel 1543) delle possibili reazioni alla sua scoperta ‘eterodossa’ e, addirittura, la sua opera De Revolitionibus Orbium Caelestium (1543), fu pubblicata con una premessa di un autore anonimo che relativizzava il contenuto stesso della pubblicazione. E lo stesso Galileo nel 1633, alla veneranda età di 69 anni, per mantenersi in vita dovette abiurare, mantenendo nicodemisticamente la convinzione che la terra, copernicanamente, «pur si muove[sse]».
Diciamo che il cambiamento più difficile è allora quello culturale, non quello scientifico, non quello della conoscenza. È il nostro sistema di valori che, per la sua stessa natura conservativa, è un antagonista del cambiamento.
La storia del progresso scientifico – cioè del cambiamento radicale dei pilastri della nostra conoscenza – ha sostanzialmente avuto due velocità. Una lenta, che inizia dal tempo profondo, più o meno dall’evoluzione dell’uomo (200.000 anni fa), e arriva alla Prima Rivoluzione Industriale (1750 circa). Una veloce, che si sviluppa dalla Seconda Rivoluzione Industriale fino ai giorni nostri, con un indice di esponenzialità che man mano aumenta vorticosamente. Nel primo periodo il passaggio da una scoperta all’altra si intervalla con lunghe gestazioni, con lenti assestamenti tesi ad mettere in relazione le nuove scoperte coi precedenti sistemi ideologici e organizzativi[6]. Ma da un certo momento in poi, i presupposti teorici e i centri di sviluppo tecnologici diventano tali e tanti che il progresso scientifico si fa veloce e inarrestabile. Si pensi, solo per fare un esempio, che dal 1953 ad oggi, in poco più di 60 anni, siamo passati dalla scoperta del DNA alla Luna, e dalle neuroscienze[7] alla mappatura dell’universo: nascita, espansione, e ricerca di altra vita[8] compresi.
Come reagisce l’uomo di fronte a questa evoluzione così vorticosa? La risposta è semplice e si comprende anche con litote: non reagisce bene. Anche i ventenni possono toccare con mano il divario generazionale quasi incommensurabile che li separa dai nonni, ma anche, se non si fanno bloccare da troppo amor proprio, potrebbero notare il gap esistente rispetto ad un bambino che ha la metà dei loro anni: c’è ancora più differenza che tra gli odierni ventenni ed i loro genitori!
Essere di una generazione o di un’altra vuol dire tanto: vuol dire che si vede il mondo da una prospettiva diversa che non è necessariamente quella ultima, quella moderna. I Baby Boomers (nati tra il 1950 e il 1960), la Generazione X (nati tra il 1965 e 1980), la Generazione Y o Millennials (nati tra il 1980 e il 2004), la Generazione Z (nati dopo il 2005), poi ancora sotto-categorie, come i digital natives e i digital immigrants[9]… cosa c’è alla base di queste classificazioni? Semplicemente che il tempo passa per tutti e che i cambiamenti che si introducono per via dello sviluppo (principalmente) tecnologico ed economico modificano il modo di vivere delle persone, ed arrivano a mutarne valori e credenze. Ma se da una parte siamo tutti disponibili a cambiare in meglio il nostro tenore di vita fruendo degli agi della tecnologia (oggi tutti abbiamo in casa il frigorifero, ma negli anni del dopoguerra pochissime famiglie se lo potevano permettere), non allo stesso modo siamo disponibili a cambiare le nostre idee con le nuove. Le nuove idee non le sentiamo più come nostre.
Se facessimo un’analisi di quello che per noi è il mondo del lavoro, se dovessimo mettere nero su bianco quello che pensiamo realmente, ci renderemmo conto che i nostri giudizi non sono esattamente il prodotto delle nostre idee, ma opinioni fortemente influenzate dal contesto in cui viviamo, dall’educazione, dalle esperienze, dalle nostre paure (quindi dal nostro carattere) e, certamente, dai nostri preconcetti (i cosiddetti bias). Per farsi un’opinione sulle cose non è solo necessario l’accesso alle informazioni di prima mano, ma soprattutto la nostra disponibilità ad accoglierne la verità sottesa. È questa disponibilità lo scoglio più grande: noi, culturalmente, siamo più conservativi che accoglienti. Perché?
Tutti i saperi tendono naturalmente, nonostante gli attacchi del tempo che incede, alla conservazione: fa parte dell’istinto di sopravvivenza che è profondamente radicato in noi. È la nostra storia evolutiva a comandarcelo. Ma attenzione perché il campo è minato: la storia evolutiva non parla un linguaggio univoco: un conto è l’individuo, un conto è la specie. Evolutivamente parlando, la nascita di Homo Sapiens è stata possibile solo perché, appunto, l’individuo si è evoluto, cioè ha risposto positivamente e interattivamente ai cambiamenti dell’ambiante. La specie ha praticamente introdotto volta a volta nell’individuo modificazioni impercettibili che pian piano lo hanno cambiato radicalmente. Quindi: se da una parte l’uomo (l’individuo) tenta di difendere i suoi possessi perché pensa, così facendo, di poter sopravvivere meglio, dall’altra la specie introduce quegli sviluppi che cambiano l’individuo stesso. Potremmo definirla una contraddizione vitale: la più grande contraddizione vitale della storia. Voi ventenni (come noi…) la conoscete bene: quante volte avete ripreso i vostri genitori per un comportamento che non si usa più o perché li avete trovati refrattari verso una certa novità? Ecco, anche nel nostro piccolo, possiamo capire che noi stessi siamo fatti della stessa duplice materia, da una parte resistere, da un’altra cambiare. È però nella gestione del «quando» (quando resistere o quando cambiare) che l’uomo diventa adulto ed entra nel mondo della complessità.
Veniamo dunque a noi.
La religione del cambiamento coscrive sempre più profeti (manager, formatori, docenti…) che spronano gli altri a cambiare per trarne un’utilità. L’aspetto più problematico è che bisognerebbe capire quale sia il fine di quelli che ci spronano al cambiamento e quale sia l’oggetto del cambiamento invocato (cioè in cosa bisogna cambiare). Per giocare a carte scoperte, vi dirò esplicitamente il mio. Il mio fine ultimo non è che voi diventiate necessariamente qualcosa o qualcuno. Il mio fine ultimo è solamente che capiate il cambiamento quando agisce in voi, che sappiate riconoscere quando state resistendo automaticamente a qualcosa che si presenta come nuova, che bussa alla porta per entrare. Ed anche, che quando decidete di cambiare qualcosa, la vostra sia una decisione consapevole, che abbiate chiaro su cosa state agendo e siate coscienti che vi state assumendo un rischio. Perché c’è un aspetto caratteristico e ricorrente in ogni cambiamento: il rischio (per questo provoca stress e la resistenza allo stress è competenza onnipresente nelle job description). In una parola, il mio fine è la vostra consapevolezza.
Nell’ambiente lavorativo la gestione dello stress correlato al cambiamento è un argomento cruciale. Vediamo il motivo più rilevante e macroscopico della resistenza a cambiare.
Il cambiamento sostanzialmente destabilizza perché toglie l’individuo da una sicurezza (ideologica, culturale o pratica) e lo proietta in una condizione di incertezza. “Prima ero sicuro che mi sarei salvato se avessi fatto le cose che sapevo, ma ora non sono più sicuro”: questo è il discorso di massima, a cui convergono sia psicologia sia antropologia[10], e sta alla base della paura di cambiare. Quindi, la paura che blocca e che si mette di traverso è la paura di non farcela, è il senso di debolezza intrinseco all’uomo. Come fronteggiarlo? Oggi i profeti dell’automatismo vendono molte tecniche, e siccome la domanda è numerosa vendono bene. Però le tecniche funzionano poco: i contesti non sono mai gli stessi e l’automatismo non funziona. È una duplice questione: conoscere gli elementi tecnici del problema e le relazioni con gli altri elementi del contesto è solo un pre-requisito: l’attività «core» sta tutta nella situazione, che necessita di una decisione autonoma e, spesso, creativa. È, questo, un concetto importante. Da una parte le competenze necessarie si irradiano in diversi campi, quindi non solo nel particolare campo specifico (e il gap si colma con lo studio e con l’esperienza). Dall’altra parte c’è il rischio, non completamente conoscibile anzitempo, che obbliga l’individuo a destreggiarsi nella situazione, rimodulando volta a volta le conoscenze (che dovranno essere il più possibile sistemiche), tenendo conto delle intuizioni, e adattando il tutto alla situazione che è in continuo cambiamento.
A questo punto si apre uno scenario nuovo, e sarebbe bene che il mercato
del lavoro ne tenesse conto: che peso hanno competenza tecnica e intelligenza
plastica? Chi punta solo sulla competenza tecnica si lega stretto
all’automatismo, e questo porta al fondo del nostro attuale mercato del lavoro.
Difficile risalirne senza liberare zavorra.
[1] Danilo Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Roma-Bari, Laterza, 2004. Jean Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Bologna, il Mulino, 2010, pp. 39-64 (cap. primo: la logica sociale del consumo). Paul Hawken, The Ecology of Commerce, revised edition. A Declaration of Sustainability, New York, Harper, 2010.
[2] Daniel J. Levitin, The Organizad Mind. Thinking Stright in the Age of Information Overload, New York, Penguin, 2014.
[3] Richard Donkin, Il futuro del lavoro, Milano, Il Sole 24 Ore, 2011.
[4] Antoine-Laurent de Lavoisier, Trattato di chimica elementare, 1789.
[5] È la terza censura delle otto che gli imposero chiedendogli, invano, di abiurare. Giordano Bruno risponde rifacendosi al suo De la causa, principio et uno (1584), in Oeuvres Complètes de Giordano Bruno, Le Belles Lettres, 1993, Vol. 3, p. 13; e cfr. Steffen Shneider, Aistetics of the Spirits, Gottingen, V&R Unipress, 2015, p. 131, nota 12. Bruno Riprende questi temi in altri scritti, come nel De minimo (1591) e nel De monade (1591).
[6] Per una panoramica degli eventi macroscopici e una prospettiva ad ampio raggio degli eventi umani preistorici e storici (con qualche tentativo di sintesi forse un po’ troppo tranchant), vedi: Youval Noah Harary, Da animali a Dèi. Breve storia dell’umanità, Milano, Bompiani, 2014.
[7] Per una panoramica: Patricia S. Churchland, L’io come cervello, Milano, Cortina. Altri due testi fondamentali, con punti di vista differenti: Daniel Kahaneman, Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori, 2012, e Gerd Gigerenzer, Imparare a rischiare, Milano, Cortina, 2015.
[8] Grazie all’invenzione di una nuova generazione di telescopi di larga portata, come il James Webb Space Telescope (JWST), successore del Hubble Space Telescope (HST). Sul big bang e sull’evoluzione dell’universo: S.W. Hawking, La grande storia del tempo, Milano, BUR, 2015, p. 79 e ss.; C. Rovelli, La realtà non è come appare, Milano, Cortina, 2014, p. 175-181; E. Harrison, Cosmology: the science of the universe, Cambridge, Cambridge University Press, 2013; A. Loeb, S.R. Furlanetto, The first galaxies in the universe, Princeton, Princeton University Press, 2013; M. Tegmark, L’universo matematico. La ricerca della natura ultima della realtà, Torino, Boringhieri, 2014, pp.112-39; J. Baker, 50 grandi idee Universo, Bari, Dedalo, 2011, pp. 56-9, 64-67, 76-9; M. Hack, L’universo nel terzo millennio, 2010, p. 265-310; An expanded view of the universe. Science with the European Large Telescope, Mariya Lyubenova and Markus Kissler-Patig, München 2009 European Southern Observatory; S. Dodelson, Modern Cosmology, San Diego, Academic Press, 2003, p. 9-20; J.R. Primack, Dark matter and structure formation in A. Dekel, J.P. Ostriker, Formation of structure in the universe, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, pp. 3-75; J. Silk, The big Bang. The creation and evolution of the universe, San Francisco, W.H. Freedman and Company, 1980. In ultimo si può citare il programma S.E.T.I. (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) che dal 1974 a tutt’oggi, con base a Mountain View in California, si occupa – ancora senza risultati – di inviare e ricevere segnali per o da extra-terrestri.
[9] Mark Prensky, Teaching digital natives: partering for a real learning, Corwin, Thousand Oaks, 2010. Sostanzialmente sono i nati dopo l’introduzione del personal computer (1985) e dei sistemi windows a più finestre (1993).
[10] Per un approfondimento sul tema: Alfred Adler, Il senso della vita, Roma, Newton & Compton, 2012, p. 64 e ss. (cap. 6: il complesso di inferiorità). Si veda poi Gehlen che, nonostante il suo conservatorismo e l’approccio empirico, sottoscrive sostanzialmente quanto precedentemente detto da Adler, mutuandolo sulla teoria della compensazione di Herder: cfr. Arnold Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1983 (il concetto è trattato più volte nel testo). La posizione di Gehlen è complessa nelle relazioni della gestazione ma autonoma negli effetti: da una parte non considera probante l’investigazione della psicologia (perché il ricorso agli archetipi non è empirico: A. Ghelen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, Milano, Mimesis, 2016, p. 23) ma, come si è detto, le due tesi possono coincidere; dall’altra si rifà a Herder per la teoria della compensazione (Johann Gottfried Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Bologna, Zanichelli, 1971) non sottoscrivendone però il fondamento più rilevante: l’impianto teleologico divino.