(Glass, Fabio Zonta)
Chi è l’uomo sincronico? Perché si chiama sincronico? Perché è nominato superuomo mentre diviene marionetta etero-diretta? Chi è davvero l’uomo contemporaneo?
La bellissima e inquietante immagine intitolata “Glass” di Fabio Zonta anticipa con una stimolazione emozionale già macchiata di intuizioni cognitive il ragionamento che cerco di sviluppare.
Pubblicato in «LaRivistaCulturale.com», 19 giugno 2020
https://larivistaculturale.com/2020/06/19/il-presente-sospeso-delluomo-sincronico-come-la-globalizzazione-ha-messo-in-crisi-ladattamento-sociale/
Il presente sospeso dell’uomo sincronico
In quest’epoca che definiamo Antropocene è avvenuto uno slittamento del baricentro dal contesto al soggetto, con ridefinizione di percorsi, territori, mappe mentali. In uno spazio vitale ormai così aperto da non avere più confini, l’individuo è chiamato a optare in solitudine per scelte esistenziali prima impensabili, deve sradicare il vincolo con la terra madre (paese, città, regione, nazione…) e trovare l’altrove, non importa se all’altro capo del globo, che più si concilia con la sua personalità, con il suo modo di concepire la vita o solamente, come accade ai più, con le sue esigenze di sopravvivenza.
Ma in un mondo globalizzato è come quando si entra in un fast food di una catena multinazionale: un luogo vale l’altro; passato da uno scenario determinato ad uno indeterminato e indistinto, l’individuo, senza più la mediazione di quei radicamenti e quegli interlocutori che contribuivano alla definizione della sua identità, comprende che conoscere e gestire le variabili è sua esclusiva prerogativa.
La globalizzazione (egemonia economica) produce l’effetto ottico di rifrangere all’infinito possibilità e poteri e l’individuo riceve una nomina a super-uomo. Un plenipotenziario, onnipotente ‘imprenditore di se stesso’, che ha in mano il proprio destino. Assunta così d’un fiato l’investitura elettiva, il neo-nominato superuomo, entrato nel suo ruolo di protagonista illuminato dalle luci della ribalta (cittadino libero elettore, individuo libero consumatore), si pensa fine ultimo di ogni cosa, mentre, deposto l’auspicio e il fine kantiano, è marionetta eterodiretta, null’altro che un mezzo, un qui pro quo.
L’uomo contemporaneo, conosciuto più di quanto non conosca se stesso, è un target profilato, bombardato da stimoli che solleticano i suoi bisogni, che orientano le sue idee, che determinano i suoi convincimenti; e siccome il sistema è strutturato in modo da esaltare la frammentazione e occludere le vie alla messa in relazione degli elementi in gioco, man mano, corrispondentemente allo stimolo, si perde il sentimento del contrario dato dal confronto con la diversità. Paradossalmente, l’individuo, inserito nell’economia del mercato globale, vede solo la propria immagine riflessa dappertutto e questa esalta perché dà illusione d’infinità. Così, non accedendo più a ciò che è altro da sé, si cristallizza in coazioni ripetute, in auto-replicazioni narcisistiche che recludono come in uno specchio, in una mise en abyme, questa sì infinita.
E una volta persa la dimensione della relazione sociale, ristretta alla nicchia di omologhi, ripiega sull’unico terreno rimasto, da proteggere strenuamente: se stesso.
Come l’individuo risponde a questo nuovo ruolo di pseudo-protagonista senza scenario, senza riferimenti, all’esigenza di vivere in questa laica minacciosa immanenza che chiameremo sincronismo?
All’ombra delle staglianti potenzialità, senza una bussola di orientamento, è ovvio che questa costante tensione sia diventata, come diceva Kurosawa, un avanzare sulla coda della tigre: la società è ora una selva pullulante di pericoli, ogni passo può esser mortale. Capiamo man mano sempre di più che i problemi del contesto, di ricerca e decodificazione del flusso immane di informazioni, traslocano da fuori a dentro l’individuo, diventando problemi personali.
In questo dominio dell’economica globalizzata, il pericolo più paradossale è la parcellizzazione o, come dice astrusamente Baudrillard[1], la «demoltiplicazione frattale» della complessità. Nella scomposizione dell’insieme, «l’esorbitanza di ogni particolare ci attira».
L’essere sincronico vive quindi in un mondo orizzontale da cui è stata eliminata ogni verticalità. Vive, saussurianamente, preferendo la sincronia alla diacronia. Sta immerso nella propria situazione contingente, nella mono-dimensione di Marcuse: ha dimenticato le relazioni, le connessioni, i parallelismi, le differenze, le intersezioni. Ha dimenticato la storia, e con ciò ha tagliato i ponti tra sé e il mondo reale. Ormai esiste solo in ciò che crede di essere, senza contraddittorio. Ha perso i parametri di confronto, gli esempi alternativi, le strade ulteriori da percorrere. Non è affatto detto che questo profilo corrisponda a persone marginalizzate, anzi, è un requisito di idoneità per ruoli chiave di sistema. In ultimo, avendo semplificato il passato ad insegnamento negativo, quindi a monito per come vivere il presente, ed essendo relegato alla contingenza di un presente in cui mai si diviene, l’uomo sincronico s’illude sul suo futuro e sul suo divenire. Non ha un vero orizzonte davanti a sé, né un progetto. In breve: l’uomo sincronico non vive nei tempi dell’uomo ma in un presente sospeso. La definizione della sua identità è sempre procrastinata, nell’infinito succedersi di acquisti e prodotti, in un divenire che mai diviene; e proprio per questo, per il fatto che non si concretizza mai, l’uomo sincronico non può crescere, svilupparsi, cambiare. La sua identità non definita, «unfixed»[2] – nonostante la sua accentuata rivendicazione di territorialità – non ha una linea propria e personale che disegni il contorno tra ciò che è e ciò che non è, quindi non ha una direzione né un futuro. Peggio: non esiste. Appunto perché non esiste e sa (in qualche modo, più o meno sotto la soglia della consapevolezza) di non esistere, si procura delle adulterazioni di realtà e gioca al gioco dell’impersonare identità immaginarie e improbabili. Nonostante rappresenti un palese auto-inganno[3] e, sovente, anche un inganno verso gli altri, il gioco reale della virtualità (giacché il virtuale non esiste) risponde ciononostante a due ‘comandamenti’ del tutto sani e positivi: la necessità di dare dei confini alla propria personalità e la necessità di una relazione sociale. Tuttavia, la malafede insita nello spostato oggetto ci mette in chiara evidenza che né l’uno e né l’altro obiettivo potranno essere conseguiti. L’irrelazione conduce il bisogno naturale a realizzarsi nell’irrealtà, e tra gli strumenti dell’irrealtà i nuovi network social-mediatici costituiscono identità e socialità spesso fittizie che sono destinate ad aggravare le problematiche di coloro che le usano. In questi casi la cura serve per acuire la malattia e rinforzare la cura: il loop è una giustificazione della vendita della cura; il business è la medicina. In questo senso, è peggio dei palliativi, perché stacca sempre più il soggetto da ciò che solo potrebbe aiutarlo (la complessità del confronto con la realtà e con le persone reali), rendendolo dipendente, addicted, al tossico rimedio. Si crea una desolante impari partita tra il soggetto – la cui esigenza di crescita e di maturità non muore mai, e per questo si sposta – e la ressa di un certo numero di altri soggetti che offrono coordinate, interessati a trarre profitto da questa condizione di indefinitezza. Siano essi soggetti politici, mercati, sette, lobbies, religioni fondamentaliste: sono tutti interlocutori assai esperti nel mantenere viva questa precarietà e nel canalizzare le difficoltà esistenziali verso il proprio particolare tornaconto.
In questo contesto, primordiale come una savana ma impreziosito di mezzi e dilemmi moderni, si può scorgere al centro, come una preda, l’uomo sincronico. È prigioniero, solo, sperso in un infinito vociare interiore, attorniato da clamori che stimolano impulsi, impossibilitato ad accedere alla sua parte più profonda dal perenne brulicare in cui è immerso. Ha perduto l’abitudine a concentrarsi su una sola cosa, a calarsi senza zavorra, nudo e vero, nel suo mondo interiore e nel mondo di fuori, a guardarsi, a scoprirsi. Il suo universo è una piccola stanza specchiata che lo replica all’infinito in scenari ologrammati, la cui copia e la cui inafferrabilità fa sì che la fatica della scelta (desiderio) rimanga irrealizzata e si procrastini vieppiù, mentre egli è chiuso nel piacere dello spostamento oggettuale (bisogno indotto) della vista. È in coazione, prono, rabdomante sui suoi bisogni affinati che, stimolati da condizionamenti non lontani da quelli che Pavlov procurava ai suoi cani, emergono davanti ai suoi occhi come infiniti clusters di pop up: la sua volontà di potenza sta nell’illusione delle alternative, nell’effetto ottico della scelta. Per questo vede positivamente solo ciò che può tornargli utile e avverte come una minaccia all’equilibrio (ma anche questo è un comandamento che ha purtuttavia una genesi sana, naturale e positiva) ogni cosa stia al di fuori da questo perimetro.
Le altre storie parallele, la storia del passato, il futuro? Sono pericoli, depistaggi dalla propria utilità, ostacoli al proprio vantaggio. Le istanze che muovono verso la sua tutela e gli oggetti ai quali si rivolge? Sono più che giustificati, muovono da comandamenti sani e positivi! È evidente che in questo stordimento di impulsi, in questa mescolanza di verità e menzogna (come nel romanzo dell’ultimo Piovene) siamo in quella che Levi chiamava «zona grigia»[4].
Tagliato fuori il mondo e tagliatosi fuori dalla propria interiorità, inizia per l’uomo sincronico un lento declino nella sua iper-corredata casa di bambola, nella quale irrigidirà vieppiù le sue difese, si specializzerà nell’evitare i contatti, diventerà artista nel banalizzare gli input diversi da quelli attesi, riconoscerà immediatamente le situazioni di ‘pericolo’ e le neutralizzerà… Sarà una lunga decadenza a circuito chiuso, una backyard story, se si vuole.
[1] J. Baudrillard, L’altro visto da sé, Genova, Costa & Noland, 1987, p. 25.
[2] «Coloro che praticano e si godono la nuova condizione di ‘indefinitezza [unfixedness] dell’io tendono a farvi riferimento in termini di libertà. […] Alla deriva da un episodio all’altro, vivendo ogni episodio senza la consapevolezza delle sue conseguenze, né tanto meno della mèta, guidati dallo stimolo a cancellare la storia passata più che dal desiderio di disegnare la mappa del futuro, l’identità resta costantemente inchiodata a un presente ormai privo di qualsiasi significato durevole come fondamento del futuro» (Z. Bauman, Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 25-6).
[3] È ciò che Sartre chiama «malafede», «la menzogna a se stessi» (J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Milano, il Saggiatore, 2002, p. 84)
[4] Todorov attualizza il concetto di «zona grigia» di Levi, lo proietta dai campi di concentramento alle molte situazioni analoghe moderne, e toglie dalle righe i vari ‘grigi’ (politici, media, autori, intellettuali, persone comuni) che con lucida obiettività Levi smaschera, nella ferma consapevolezza che il male non sia esclusiva «prerogativa dei regimi nazisti e comunisti». E per far questo, ciò è sottolineato con forza da Todorov, Levi fa «una lunga arringa in favore della complessità» (P. Levi, I sommersi e i salvati, Prefazione di Tzetan Todorov, Torino, Einaudi, 2007, pp. V-XI).