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Valore della persona e organizzazione del lavoro

da | Feb 23, 2020 | Riflessioni critiche

Contributo pubblicato in «Sviluppo Felice» il 16 novembre 2015 estratto da «Cesare Grisi, Management della verità. Il valore della persona nella formazione, nelle organizzazioni e nel lavoro»

Cerchiamo di fissare i punti principali su cui si basa il lavoro globalizzato della nostra contemporaneità. Punti che corrispondono a precise competenze e capacità che il nostro lavoratore, dopo i corsi di formazione a cui è stato destinato, possiede senz’altro. È ora finalmente pronto ad andare in un contesto aperto, veloce e mutevole: è per questo segreto piano di sviluppo che l’azienda ha fatto investimento su di lui, affinché alla fine, come un dipendente modello, incarnando l’ideale aziendale, debba:

  1. essere flessibile, ovvero capace di seguire gli sviluppi del mercato, trasferirsi all’estero, essere disponibile a frequenti trasferte;
  2. accettare la diversità, sapersi interfacciare con persone nuove, di cultura e lingua diverse dalla propria;
  3. essere capace di ‘produrre risultati’ in condizioni di stress, di rispondere a scadenze che si intrecciano e alternano, di condurre progetti che si assommano parallelamente, di risolvere conflitti burocratici, tecnici ma soprattutto con le persone che hanno una parte importante nella realizzazione del dato progetto;
  4. concepire il lavoro come slegato dal fattore tempo e spazio: ci sono infatti urgenze dell’ultim’ora che con il fuso orario non tengono conto dei tempi lavorativi della singola persona, e non si può nemmeno concepire il lavoro come un luogo dove si imperniano i nostri punti di riferimento come il collega della scrivania accanto, la riunione settimanale con lo staff, la pausa pranzo nella mensa aziendale, la posta elettronica che arriva con dominio conosciuto, l’organizzazione della scrivania con la foto del figlio di cui andare fieri: da un momento all’altro l’azienda può chiedere di recarsi in una nuova sede, con nuovi colleghi, per periodi più o meno lunghi, in luoghi vicini o remoti;
  5. lavorare per progetti senza più avere un solo ambito di azione, senza più sapere esattamente l’origine e la fine del progetto globale (cioè in che progetto si inserisce il progetto), giacché le competenze passano da settore a settore e così il progetto per la sua finitura;
  6. essere focalizzati sul cliente, spostare cioè il baricentro delle proprie azioni da se stessi agli altri, in un vortice che cambia il volto al consumatore, si potrebbe dire, da un giorno all’altro;
  7. cambiare mansione, saper vedere il lavoro da prospettive diverse, essendo purtuttavia capaci di mantenere alto il livello di competenze ed essere capaci di trasferirle ad altri ambiti, con differenti procedure, mezzi, colleghi, strutture;
  8. tutto ciò, in fine, significa essere capaci di cambiare i punti di riferimento ed i valori.

Osserviamo bene queste capacità che il nostro lavoratore ormai globalizzato deve possedere perché ciò ci porta a considerazioni di notevole importanza. Il lavoro, come sempre lo abbiamo inteso, è esploso. La capacità tecnica è diventata una materia malleabile nelle mani dell’uomo, a cui è chiesto sovente di cambiarne la forma. La vera competenza è dunque il cambiare la forma a ciò che si sa e, inoltre, si diceva, per sapere è necessario un processo di apprendimento continuo. Ma l’accento non sta solo su ciò che sappiamo, sulla conoscenza tecnica specifica: sta anche e soprattutto sulla capacità di sapergli cambiare la forma. La subordinazione della competenza hard verso quella soft ci pare un processo abbastanza palese, sebbene in un contesto che esalta la massima specializzazione. Se allora possedere un’arte, con senso antico, equivaleva a sapere chi si era, ad avere un’identità definita, questa sopraggiunta mutevolezza della forma spiega la difficoltà del soggetto a seguirne il cambiamento e fissarne i punti fermi.

Siamo di fronte ad un momento epocale, storico. Tutto il cammino umano è sempre stato destinato ad una forma che determinasse il suo contenuto. La bottega per apprendere la tecnica del mestiere, o la postazione del lavoratore nella catena di montaggio, o il laboratorio informatico del programmatore o del tecnico: sono certezze passate, retaggi. Siamo sull’antica dicotomia tra corpo e anima, tra forma e sostanza, tra professione e identità. Anche in campo religioso l’iconoclastia della cristianità orientale dell’VIII secolo mostrava in controluce la necessità di liberarsi della forma per poter essere, e ciò non era tanto distante nel Buddismo dal concetto di reincarnazione e di nirvana, il cui processo era, analogamente, una liberazione dalla costrizione della forma. Oggi, la modernità, definita per questi motivi «liquida» da Bauman, toglie un altro elemento costitutivo della nostra cosmogonia: la forma del lavoro, che è forma di identità.

La nostra società, con le sue leggi, cerca di tener testa a questo progresso, ma come si è detto arriva tardi, e lascia un grande vuoto istituzionale. Anche il nostro pensare al cambiamento è più ancorato a retaggi passati che non proiettato alle possibilità future, e ancora meno bilanciato, nell’elasticità del presente, a far interloquire i due mondi. Succede quindi che le regole attuali si applichino ad un contesto che però è già cambiato, regole che non sono derivate dal diritto giuridico. È proprio quello che accade all’ambito lavorativo globalizzato i cui requisiti sono stati sopra descritti.

Mettiamo che il nostro lavoratore, snervato dalla cosiddetta flessibilità, sfiancato dallo stare alla deriva tra una speranza e un’illusione di un po’ di requie, tra i passaggi di competenze e l’incapacità di afferrarne una, tra gli aeroporti e il suo letto di sposo, tra un passato che si sfuoca e il presente che non riesce ad afferrare, decida infine di affidarsi ad una causa di lavoro per disperazione, e compaia davanti al giudice asserendo e provando:

  1. Che gli è stato fatto cambiare spesso tipologia di lavoro.
  1. Che ha cambiato spesso la sede.
  2. Che si è sottratta specificità ad un ambito del suo lavoro e gli è stata chiesta una nuova specificità.
  3. Che è stato cambiato il contesto lavorativo usualmente densamente popolato per un nuovo contesto più isolato.
  4. Che tutti questi cambiamenti hanno influito sulla sua psicologia dandogli la sensazione di assediamento continuo.
  5. Che non si sente di aver acquisito niente, ma addirittura di aver perso contatti, capacità, comunicazione, rapporti con i colleghi…
  6.  

Se un giudice ascoltasse queste recriminazioni, che certamente sono allineabili ai nuovi requisiti del lavoro globale, ebbene, saprebbe per certo a quale fattispecie del diritto attribuire questa causa: il mobbing.

IL TRAUMA DEL RITORNO IN SÈ

Nel seno di un discorso un poco più complesso, mi son permesso di fare questa digressione, spronato dalla rilevanza della cronaca (nera e rosa) e dal proliferare dell’argomento più (ec)citato che discusso seriamente.

Il tema è la relazione Soggetto/Oggetto nella dimensione più alta e profonda che ci sia: quella d’amore.

Che diavolo accade tra amante e amato? Ecco: la prospettiva è, come al mio solito, un poco fuori dal comune, e il taglio interdisciplinare.

È più che ovvio che la relazione Soggetto/Oggetto connessa nel LAVORO (per esempio nella perdita del lavoro) si muove in condizione di sudditanza rispetto al più alto argomento, ed ha tutto di che imparare (e d’altronde i termini che usa il lavoro… passione, amore, empatia, fedeltà, perdita, realizzazione, autodeterminazione… da dove sono desunti?).

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Il senso del lavoro nella vita delle persone – intervista per Toscana Economy

«Toscana Economy» è una rivista attenta alle nuove tendenze e si è mostrata (coraggiosamente) interessata ad approfondire e far conoscere il pensiero e le attività di WiLL©.
L’articolo-intervista si intitola Il senso del lavoro nella vita delle persone: penso che nessuno sia esente dal porsi in prima persona, più o meno esplicitamente, una domanda sul senso come questa.

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